RECENSIONI LIBRI
RECENSIONE DEL CRITICO GIOVANNI STELLA - Giugno 2000
LA NUOVA TRIBINA LETTERARIA RIVISTA LETTERARIA - Giugno 2000
RECENSIONE DEL CRITICO LETTERARIO SALVATORE FAVA
DEL LIBRO "FIUMI IN PORTO" PER IL PREMIO SELEZIONE POESIA - Luglio 2003
CACTUS RIVISTA UNIVERSITARIA DI PADOVA - Maggio 2000
GIORNALE DI SICILIA - Maggio 2000
"IL CONVIVIO" RIVISTA LETTERARIA - Luglio 2019
Ombre verso l'aurora di Paolo Russo
di Cinzia Baldazzi
Il pensiero è un atto inconscio della mente che,
per divenire pienamente cosciente,
ha bisogno di parole e di immagini
Alfred Binet
A volte i rapporti di fiducia tra critico e scrittore, come fra medico e paziente nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung, sono ostacolati dal contenuto inconscio sparso ovunque, poiché è appunto l'Es a produrre tra il lettore-modello e l'autore un'atmosfera illusoria, ingannevole, matrice di costanti equivoci o di una falsa, magari scontata armonia (evenienza maggiormente preoccupante della prima). In parte la benevola τύχη (tiùche), la sorte, in certa misura anche una comune propensione creativa, dialettica, nonché amante delle contraddizioni, hanno reso possibile che ciò non si verificasse tra Paolo Russo, poeta-psicoterapeuta, e il mio personale metodo esegetico. Il punto di avvìo è il brano Il sogno, una sorta di "manifesto" della poetica dell'autore in apertura della silloge:
Chiudo gli occhi, a tarda sera
fino al silenzio della notte
quando inghiottito dalla luce del buio,
mi ritrovo inerme
dentro un intreccio di immagini e parole,
celate dal chiasso del giorno.
Cosa mai ho vissuto? Che ora angosciato
muoio, senza perdere la vita,
cadendo in un vuoto di derisione e rifiuto.
Secondo lo psicanalista svizzero, nell'attività onirica si possono rintracciare i vari status tipici della mente, dallo spazio del Super Io a quello più arcaico sul quale si è formato, nei secoli, il cammino stesso della specie umana, pertanto immortale, quindi perpetuo, capace di subire intervalli tragici e angosciosi, incompresi o rifiutati «senza perdere la vita». Il sogno non coincide con una raccolta casuale e insensata di immagini, nemmeno con una reazione incontrollabile a stimoli del corpo, ma costituisce, in chiave ancora junghiana, «un prodotto autonomo dell'attività psichica». Il componimento di Paolo Russo, infatti, termina così:
Sfiderò questo fiume costretto da argini diurni
e tra morse di giudizi severi
e come un ruscello abbraccerò la mia sorgente.
Aprendo gli occhi, ora comprendo
che nessuno può uccidere l'animo vero.
Varcata la porta andrò fuori straripando
di quell'acqua sincera che ogni notte
i sogni vanno portando.
Ogni opera di scrittura, non dimentichiamolo, si presenta però come esito della scelta - intenzionale, determinata - di esprimere messaggi poetici e artistici. Dunque, ricorrendo al maestro indiscusso in questo campo, il francese Charles Mauron, occorre tenere presente il suo avvertimento: «Dal momento in cui ammettiamo che in ogni personalità esiste un inconscio, quello dello scrittore deve essere considerato come una "fonte" assai probabile dell'opera». Una fonte in qualche modo di tipo esterno in quanto, precisa Mauron, per «l'Io cosciente, il quale fornisce la veste verbale all'opera letteraria, l'Inconscio esplicitamente notturno è "un altro": alienus. Ma anche fonte interiore, segretamente congiunta alla coscienza da un perpetuo flusso e riflusso di scambi». Dove cercare, allora, l'ombra profonda del repertorio inconscio, la "materia prima" - o lapis philosopharum - di questo volume? Per ricorrere alle parole di Jung, si tratta senza dubbio di andare alla ricerca di un quid arcano, «nero - nigrum, nigrius nigro (nero, più nero del nero) - come dicono giustamente gli alchimisti […]. La natura del contenuto inconscio corrisponde alla "prima materia", con un'unica eccezione: che esso non appare, come nell'alchimia, nella sostanza chimica, ma questa volta nell'uomo stesso».
L'intera forza emozionale e razionale di Russo trapela tra una riga e l'altra in un'oscurità intrigante, anzi, in termini freudiani, "perturbante", in ombre minacciose, in flash cupi e disperati: il quadro verista de La festa paesana si apre con l'immagine tutt'altro che festosa dei pensieri, «quelli più neri», assimilati a «scricchiolii di legna arsa»; l'inganno di un sentimento equivocato si allarga a dismisura in Palpitio dell'amore illuso, coinvolgendo il tempo atmosferico («buie piogge»), il dolore fisico («pelle che si crepa»), l'estinguersi dei sensi e dell'anima («luce che non si vede / E fede che non crede»); il "male di vivere" è scandito, in Oltre la distanza, da una scelta lessicale senza speranza, tra angoscia e rabbia, ferite e insulti, dolore e disperazione; infine, l'incombenza di un destino tenebroso accomuna i vecchi e i giovani, i genitori e i figli di A marzo.
Nella mia mente, le associazioni scaturite dalle immagini di Paolo Russo, in questa parte di poetica segnata da un registro altamente drammatico, si collegano ai versi de Gli araldi neri del peruviano César Vallejo: «Ci sono colpi nella vita, così forti… Che ne so! / Colpi come dall'odio di Dio; come se davanti a loro / la risacca di tutto il sofferto / s'appozzasse nell'anima… Che ne so! / Sono pochi, ma sono… Aprono solchi oscuri / sul volto più fiero e sulla schiena più forte. / Saranno forse puledri di barbari attila / o gli araldi neri inviati dalla morte. / Sono le profonde cadute dei Cristi dell'anima, / di qualche fede adorabile che il destino bestemmia. / Quei colpi sanguinosi sono crepitii / di un pane che sulla bocca del forno ci si brucia. / E l'uomo… Povero… povero! Gira gli occhi, come / quando sopra le spalle, una manata ci chiama; / gira gli occhi folli, e tutto il vissuto / si appozza, come stagno di colpa, nello sguardo».
E tuttavia, la quartina conclusiva di Rachele innesta sul tradimento di un sogno d'amore il seme della speranza collegata a una rinascita:
Schiava del tuo penare d'amore
rinascerai come una rosa selvatica
in un bosco di poesia e calore
come uno stelo spezzato che radica
Il buio della negatività è rischiarato e dissolto da una sorgente di luce chiarissima in Floridia, componimento di nove quartine a rima ora baciata ora alternata. Ai versi dedicati al paese nell'entroterra siracusano, personalizzati dalla figura del narratore-personaggio in loco («Penso camminando sul marciapiede / mi scosto dalle comari sedute e saluto»), ben si addicono le parole di Angelo Marchese sul genere lirico o idillico: «Prima ancora che un modo o un genere letterario, è una modalità del discorso caratterizzata, allo stato puro, dall'assenza di narrazione e di mimesi drammatica e quindi dall'emergenza di un soggetto poetico o voce poetante che è, nello stesso tempo, come afferma Hegel, "centro e contenuto" del messaggio».
Floridia ne è campione significativo, nel suo allineare e giustapporre scene, quadri, istantanee tratte dalla vita quotidiana dell'abitato. Tuttavia per Paolo Russo, in analogia alle teorie dello psicologo Alfred Binet, l'immagine rappresenta una piccola parte del fenomeno complesso al quale riserviamo il nome di pensiero, cosicché tra i suoi brani la simbologia preferita concorda con il replay di un sentimento da trasmettere ai destinatari. Attenzione, però, essa non vuole coincidere con un punto di vista o, meglio, con una Weltanschauung risolutiva e lineare, con un cosciente meditare, poiché ciò sarebbe semplicistico e sommario.
Infatti, nell'opinione del caposcuola della psicologia francese, lo spirito potrebbe essere descritto come un alveare di icone, prodotte solo nel sogno e nella fantasia, e le leggi che governano l'immaginare non sono le stesse a guidare il processo mentale delle idee. Secondo Binet, «alcuni pensieri concreti avvengono senza immagini, mentre in altri pensieri l'immagine non illustra che una piccola parte del fenomeno». In sostanza, «spesso anche l'immagine non è coerente con il pensiero; si pensa una cosa e se ne rappresenta un'altra…». La formalizzazione di un simile approccio venne effettuata, in contemporanea a Binet e poco dopo la sua scomparsa, ovvero agli inizi del '900, da Oswald Kulpe e il suo laboratorio poi definito Scuola di Wurzburg: nelle loro ricerche, il pensiero può realizzarsi anche senza alcun contenuto sensoriale o di immaginazione. Tale fenomeno venne definito «pensiero senza immagini», appunto per indicarne la significatività anche in assenza di uno specifico apparato di figurazioni.
Riguardo a un tale versante di indagine, cosa accade, allora, nella ποιητική τέχνη (poietiké tècne) e in quella in atto di Paolo Russo? In L'incanto di un'emozione infinita, sull'amore apprendiamo:
Siamo qui
a correre per rincorrere
le parole che usiamo
a domandarci scusa stupiti
travolti da ciò che proviamo…
[…]
Lodare, ascoltare, capire
e sognare,
stupire di vita
anche i miei pensieri lontani
disegnare te nel mio muovere le mani
al vento per dirgli contento
guarda…
Presumo dunque sia infondato supporre un segno-segnale, derivato dalla percezione dei sensi, idoneo a essere a-priori coestensivo del pensiero: quest'ultimo, in ogni caso e in diverse forme (strumento colloquiale, informativo, letterario), è il veicolo con cui noi comunichiamo agli altri e alla dimensione interiore nella quale, di volta in volta, troviamo spazio. Del resto la sfera conoscitiva - nella sua natura normativa, razionale, nonché in quella creativa, caratteristica dell'arte - non è composta di esclusiva contemplazione, bensì anche di deduzioni autonome: pertanto, la riflessione che ne costituisce il movimento e il risultato non può che tradursi in visioni simboliche, indirette, traslate. Russo ne offre alcuni campioni con diretto riferimento alla centralità del mondo delle rappresentazioni:
Le stelle di giorno non sono poesie
ma spade, che trafiggono immagini passate.
[da Farfalla d'inverno]
La mente è un tuono
dal rimbombo spaventoso
con echi di immagini
che trafiggono nude pareti
di fragilità.
[da La mente è un tuono]
Nondimeno, nella raccolta di Paolo Russo si affaccia, pagina dopo pagina, un progressivo svincolamento del fare poetico dall'immagine, quasi in forma di riscatto. I fiori del cambiamento si muove in una voluta indistinzione tra poesia, natura e individuo; Lo sbaglio confessa la colpa di aver affidato alla scrittura il passaggio traumatico dall'amore al disprezzo; Sogni nella realtà e Fragile infante registrano, nel bene e nel male, la centralità della poiesis nell'esistenza umana.
Del resto, scriveva di nuovo Alfred Binet: «È soprattutto il linguaggio interiore che esprime i processi del nostro pensiero; se le parole sono inferiori, in un certo senso sia alle immagini che alle percezioni, perché sono lungi dall'esprimerne tutte le sfumature - la descrizione più minuziosa di un sasso non sarà mai completamente esauriente, rispetto a ciò che vi si può vedere - in compenso le parole esprimono molto meglio, con tutte le risorse della sintassi, i legami delle nostre idee». Quando poi la parola comune diviene parole, il procedimento significativo si potenzia al massimo e il poeta-psicologo Paolo Russo ipotizza quanto sia errato promuovere un principio compiuto e incline a essere trasmesso senza il concorso dell'unità di vocabolo-contenuto, né di immagini al di fuori dell'ambito inconscio che comunque, nonostante di per sé ignoto e inconoscibile, appare sempre dinamico. E lo stile del nostro autore ha fondamento in un'accezione dell'Es nel ruolo di ente primario, promotore di ogni sviluppo.
Secondo la definizione di Binet, l'inconscio «costituisce, mediante la sua funzione, una forza direttrice, organizzatrice, che paragonerei volentieri - non è probabilmente che una metafora - alla forza vitale che, dirigendo le forze fisico-chimiche, modella la forma degli esseri e guida la loro evoluzione come lavoratori invisibili di cui non vediamo l'opera materiale».
Ricorro a questa descrizione metaforica, formulata oltre un secolo addietro, in quanto ben si adatta a sintetizzare il leitmotiv, intenso e in progress, del repertorio di Russo, il quale nei suoi versi offre una prospettiva di conoscenza concreta, vicina ad affascinanti forme di vero (anch'esso in fieri) non astratte e categoriali, ma indicatrici di un processo cognitivo di cui il soggetto (il mittente o il ricevente del messaggio poetico) può giustamente attribuirsi il merito perché ha conseguito simili risultati scavando in se stesso e nell'inconscio collettivo, visitando la sfera delle forme archetipiche, esplorando un arco sociale di verifica continua.
Dunque possiamo condividere coscientemente le parole conclusive di Paolo Russo:
Un albero è ferito dalla tempesta, colpito dalla grandine come da cesoie su foglie strappate e staccate dal vento freddo di questo lunghissimo istante, eppure si ritrova fermo, immobile, sempre lì, ancorato alle solide radici della vita anche adesso che il sole è caldo e che il mattino è più dolce!
Il Trattato di Analisi del profondo di Paolo Russo
Di Valeria Sudano
Leggo il libro in due giorni, A tratti ho pianto, per la capacità che ha il libro di far rivisitare i propri ricordi ed i propri vissuti. Mi hanno profondamente colpito le riflessioni fatte da P.R. , le verità alle quali è pervenuto, grazie all' esperienza, alla sua formazione e professione, perche' andavano a collegarsi ampliando ed arricchicchendo i miei precedenti studi.
La malattia mentale:occasione di crescita personale per assumere prospettive più adeguate (questo dice P.R. come psicologo)
Io affrontavo la questione dal punto di vista del malessere sociale , il senso di vuoto , di inadeguatezza del vivere di oggi.
Da poeta individua nella poesia (anche nelle poesie dai pazienti da lui stesso in cura)la capacità di descrivere fenomeni psicologici (pag.6)La cura dunque come atto poetico nell'alimentare consapevolezza (poesia clinica).Una psicologia che si fa a partire da se stessi, la mente umana diventa accessibile solo a partire da un processo di autoconsapevolezza in cui la cura diventa una responsabilità verso se stessi e un'esperienza incredibile.
Qualcosa di noi che si manifesta e da cui noi possiamo imparare per l'appunto dalla poesia e dall'arte in generale.p.17
Dualismo nell'unità di noi , che ci porta a fare i conti con qualcuno che ci abita dentro, questo qualcuno ci renderà felice quando coincideremo con lui, ci renderà ansiosi se lo trascuriamo(grande verità che se siamo in ascolto di noi stessi scorgiamo).__________>Partendo da questa premessa il libro diventa un tentativo di esplorare quel mondo che ci abita dentro, attraverso un viaggio introspettivo "il viaggio attraverso i fiumi di Jane".
MATRICE è l'essenza prima di noi stessi, la matrice muta a seconda dei detriti apportati alla matrice dai fiumi che costituiscono la nostra vita pag.25 (Io parlavo dell'importanza di connettersi a noi stessi, al nostro vero io, all'importanza di trovare se stessi, la propria vera natura, e questo lo si può riuscire a fare solo se ci mettiamo in gioco , se iniziamo a fare esperienza, E' una sorta di lotta che proviamo quando la nostra vocazione, la nostra opera d'arte tende ad uscire fuori e a prendere forma.)
I pensieri cattivi , i tuoi mostri, quando ti sarai abbandonato a loro hai capito che i pensieri cattivi sono grida di parti di te che stavi soffocando e che adesso sono a tuia disposizione per il tuo viaggio alla scoperta delle cose della vita. Pg 60,74,81
La stima parte dal riconoscimento di se, costruire la propria autostima su una maschera è un autoinganno. Pag 101.
Rivivere angosce del passato è il primo passo per ricontattare la nostra vera identità .(la vita è la cura, come la malattia di papà ha sanato un rapporto una ferita).
Pag 120, 121 libro Etica.
Il disturbo psicologico la cui gravità si misura con la quantità di tempo non dedicato a noi stessi è un'opportunità di crescita. La nostra capacità di riaccettarci a partire dal conoscere la nostra componente più autentica,è ciò che determina una prognosi positiva all 'interno di un processo di cura.
Pag 122
Poetare è il contrario di sedare , è raccontare un sintomo in tutta la sua dignità affinchè esso possa manifestare il suo messaggio più autentico e nel suo tradursi in verità svelare la magia dell'esistenza umana.
Pag 125
Depressione è vivere senza matrice ,un concetto di rabbia, colpa, senso vuoto , inutilità; è essere qualcun altro e non noi stessi......qualcuno che ci considera importanti porta nella relazione la dignità del nostro valore umano.
Note su Ansia di Paolo Russo
di Cinzia Baldazzi
Sei la compagnia con cui parlo
d'improvviso, da solo. [...]
Ma il minimo rumore ti scaccia
e ti vedo uscire
dalla morte del libro
o dall'atlante del tetto,
dalla scacchiera del pavimento
o dalla pagina dello specchio,
e mi lasci
senza più polso né voce e senza più faccia [...]
[da Poesia, Xavier Villaurrutia]
Quanto mi piacerebbe, mentre sono colta dall'ansia, ignorare la natura, concepita oggi non complice protettiva, semmai mero strumento dell'uomo. Quasi non bastasse, l'oggetto di tale sfruttamento umano del mondo esterno si articola in un'aura dove la ragione non assegna scopi ad alcunché: quindi non conosce limiti, nemmeno quelli dell'ansietà.
Fatico più che mai, così, a sottrarmi da
pensieri che ardono,
grida che anticipano il fiato,
echi stonati lungo sentieri malati
che contagiano di morte le speranze
Sono versi di una poesia di Paolo Russo, che l'autore, psicologo Clinico e di Comunità, psicoterapeuta e psicanalista, ha posto in apertura del breve trattato Ansia. Conoscersi per guarire (edizioni PsyLibri), dove descrive il disturbo, analizza le motivazioni, espone una possibile terapia.
Da studiosa attenta alla dimensione linguistica, premetto alcune avvertenze. L'ansia si distingue dalla paura per il fatto di essere aspecifica, vaga, apparentemente priva di oggetto (mentre si ha sempre paura "di" qualcosa o "di" qualcuno). Ha parentele con l'angoscia in virtù di un comune stato psichico cosciente di apprensione e dell'assenza di una causa apparente. L'angoscia è però assai più intensa, fino a rappresentare una minaccia per l'individuo, un rischio di catastrofe. La diversità terminologica appartiene solo alle lingue di origine latina e all'inglese: infatti in tedesco i due termini sono indicati entrambi dall'elemento lessicale Angst.
Nell'ansia, lo spazio-tempo individuale è menomato, però, quando qualcuno decide di fare per se stesso. E ciò non sembra risolutivo, perché i mostri, osserva Russo,
hai cominciato anche senza volerlo a cucirteli addosso e solo quando ti sei abbandonato a loro hai capito che i pensieri cattivi erano grida di parti di te che stavi soffocando e che adesso sono a tua disposizione per il tuo viaggio alla scoperta delle cose della vita. [pag. 7]
Personalmente, sono di formazione cristiana, ma quando queste terribili ombre concrete proliferano, pure l'idea dell'anima, l'intensa luce emanata da Dio con la dottrina del Vangelo, le storie di vita con umili pescatori, i falegnami della Galilea, si affievoliscono divenendo ininfluenti.
Ottima pratica terapeutica, fitta di intervalli teorici pertinenti, il libro di Russo dirada un simile buio diffuso, sebbene, nella prospettiva ontologica da me favorita, il più cruento problema dei rapporti tra spirito, collettività e natura sia insito nel particolare che non possiamo ridurre a priori - per bisogno o sopravvivenza - l'una all'altra, né ipostatizzarne con sollievo la polarità. Esemplifica, appunto, Paolo Russo:
Quando scrivi, disegni, balli, suoni, componi o ci metti tutto te stesso per trasformare il tuo pianto in virtù, le tue cicatrici in saggezza, la tua presenza in un luogo sicuro per poter permettere agli altri di esprimere sorrisi sinceri. [pag. 9].
E se poi
l'ansia è una via d'ingresso verso quel mondo descritto dai poeti, verso quello che gli psicanalisti chiamano inconscio,
allora ripenso all'apparato riflessivo di Søren Kierkegaard, il primo a utilizzare il termine angoscia in una lunghezza d'onda filosofica, identificando al suo interno l'input preliminare dell'essenza umana, in grado di trapelare allorché sostiamo dinanzi a una preferenza da adottare; l'aura in possesso dell'uomo, libera e sconfinata di "stabilire", di decidere, lo lascerebbe in balia dell'Angst, consapevole delle responsabilità derivanti dal fatto che una scelta positiva, in via utopica, significa milioni di opzioni negative. Il microcosmo ansioso e angoscioso è definito come il sentimento della possibilità, dove tutto è egualmente possibile: dunque, consideriamo l'esistenza nel suo quid di poter-essere in cui l'evenienza di non approfittare di scegliere, rimanendo paralizzati nell'ansia, coincide con la "minaccia del nulla".
Ma l'ansia, una tipologia di malessere intimo, generale, assiduo, in cui non dobbiamo allontanarci dalla nostra "matrice", perché vedremmo il contesto in modo diverso, vivendo i "detriti" non in concomitanza con gli altri, tormenta la ψυχή (psiuké, psiche) nel fluire di un immaginario all'altezza di prospettare vicende a volte terrificanti, in un continuo status di allarme. Può essere persino, nel migliore dei casi, un sistema difensivo dell'Ego. Secondo alcuni studiosi, essa è un'eredità dei nostri antenati preistorici, ai quali si rivelava indispensabile per prevedere e prevenire i pericoli di un mondo decisamente ostile.
All'inizio potrebbe sussistere un vago sgomento nei confronti dei genitori e del dolore provocato da ostacoli materiali. Rintraccio nelle pagine di Russo un'atmosfera coinvolgente e persuasiva, con immagini dirette, se vogliamo crude, ma efficaci:
Chi soffre d'ansia può sperimentare la paura di rimanere da solo, un'angoscia che sembra somigliare a quella che esprimono i bambini quando la mamma li lascia in braccio a un estraneo o nella culla piangenti. L'angoscia abbandonica, una sorta di disperazione associata a una paura incontenibile. Un gradiente di vulnerabilità altissimo pur senza ossessioni ci rende bambini in fasce, esseri simbiotici che non bastano a loro stessi per la sopravvivenza.
Con il trascorrere del tempo, un timore analogo diverrebbe interiore, indirizzato in speciale riguardo all'anello principale della catena, ovvero l'impulso origine dell'inquietudine.
Franz Alexander spiega: «Questa paura non nasce a causa di un pericolo esterno, ma di pericolosi impulsi interni. L'ansietà è paura penetrata nell'intimo dell'individuo. Anche l'agente preposto alla punizione si intimizza; e la paura iniziale, risentita verso chi puniva i soddisfacimenti degli istinti, diventa un timore della coscienza [...]. L'ansietà non sorge da un atto manifesto, ma solo dall'impulso a commetterlo. È dunque chiaro che l'ansietà è preventiva: un segnale di allarme all'Io per avvertirlo che un impulso pericoloso, già causa nel passato di turbamento e di sofferenza, è in procinto di prendere il sopravvento».
Analogamente, precisa Russo:
L'ansia è una delle risposte che il nostro corpo o la nostra mente mettono in atto in determinate situazioni. Se l'ansia si presenta da adulti sta semplicemente dandoci il messaggio di riprenderci la nostra parte autentica messa da parte come strategia "magica" per non essere abbandonati o abusati.
Nello studio delle neurosi maschili, prosegue Alexander, medico-psicoanalista ungherese, l'allerta inconscia pare sia perlopiù motivata dal terrore della castrazione: l'onnipresenza di tale forma di catastrofe incombente, in bambini normali e in adulti neurotici, evidente nella sua diffusione nelle varie sfumature nel folklore, nella mitologia, nelle fiabe (Medusa, Sansone e Dalila, Salomè, Giuditta, la storia dell'Idra dalle sette teste, Edipo Re, Pinocchio), indussero Sigmund Freud a valutarlo primissimo fattore della repressione, della quale l'ansietà resta una delle forze motrici.
La trattazione di Paolo Russo è particolarmente attenta all'aspetto allargato e socializzato della terapia dell'ansia. Cosa avviene nell'approccio della Psicologia del Sé al setting di gruppo? Esso attribuisce una notevole importanza allo standard soggettivo del singolo paziente. Nelle analisi in ambito collettivo, però, l'oggetto supremo dell'osservare, dell'intervenire, concerne quanto accade tra i membri, cioè l'interazione e i relativi legami. L'idea di contatto intersoggettivo-fenomenologico nella terapia di gruppo è stata ribadita dallo psicologo-psicoanalista tedesco Siegmund Foulkes negli anni Quaranta, con il suo celebre paradosso che l'individuo sia un'astrazione: «Considero il paziente che mi sta di fronte come l'anello di una lunga catena, un punto nodale in una rete di interazione, la quale è la vera sede dei processi che portano tanto alla malattia che alla guarigione. Tutta la Psicologia diverrebbe così Psicologia sociale e troverebbe nel gruppo il suo naturale strumento terapeutico, confinando la Psicoterapia individuale a scopi del tutto particolari».
Una simile linea di pensiero introduce, a metà anni Sessanta, i concetti di matrice e di rete: quest'ultima è un intreccio di relazioni, di collegamenti consci ed inconsci stabiliti tra gli individui; l'altra si configura come l'agglomerato di contenuti relativi a pre-concezioni consce ed inconsce nutrite reciprocamente da ciascuno di essi rispetto agli altri membri della rete. Arthur Schopenhauer ne ha enfatizzato il ruolo: «Quasi la metà di tutte le nostre angosce e le nostre ansie derivano dalla nostra preoccupazione per l'opinione altrui». Ma dobbiamo al grande peruviano César Vallejo la drammatizzazione più dura e incisiva nei versi de Gli araldi neri: «Ci sono colpi nella vita, così forti... Che ne so! / Colpi come dall'odio di Dio; come se davanti a loro / la risacca di tutto il sofferto / s'appozzasse nell'anima... Che ne so! / Sono pochi, ma sono... Aprono solchi oscuri / sul volto più fiero e sulla schiena più forte. / Saranno forse puledri di barbari attila / o gli araldi neri inviati dalla morte. / Sono le profonde cadute dei Cristi dell'anima, / di qualche fede adorabile che il destino bestemmia. / Quei colpi sanguinosi sono crepitii / di un pane che sulla bocca del forno ci si brucia. / E l'uomo... Povero... povero! Gira gli occhi, come / quando sopra le spalle, una manata ci chiama; / gira gli occhi folli, e tutto il vissuto / si appozza, come stagno di colpa, nello sguardo».
Quale sarà la via d'uscita da intraprendere? Scrive Russo:
La guarigione dall'ansia spesso avviene per spostamento e convinzione. Esiste uno stato di vulnerabilità che va placato costruendo una struttura capace di reggere un vissuto altrimenti troppo invasivo. [pag. 35]
Centrale appare la volontà:
Paradossalmente diventa terapeutico acquisire la capacità di tollerare situazioni evitate per uscire dall'ansia. Le immagini cosiddette intrusive e fastidiose acquisiscono potere proprio grazie alla nostra intolleranza. Dare meno peso a certe situazioni è l'atteggiamento vincente per sminuire il peso dei pensieri. [...] Infatti davanti ad un flusso ansioso è proprio il fatto di non voler l'ansia che crea la patologia. La cura è andare incontro, non evitare, è apprendere strategie, non creare barriere. Il sintomo è resistenza manifesta, è bisogno di creare spazi nuovi. [pag. 45]
Acuta osservazione, anche sul piano ontologico: il volere in campo viene conquistato solo dopo aver eliminato tutte le forme di falsa volontà e di ingannevoli auspici capaci di allontanare l'uomo da quell'ente, come suggerisce Martin Heidegger, impegnato in interrogazioni senza sosta sul significato dell'essere.
L'uomo non deve, insomma, ridursi a puro oggetto di contemplazione, cioè a una semplice presenza nell'hic et nunc, in quanto il suo modo di essere coincide con l'esistenza, a sua volta in perfetta unione con il poter-essere, il progettare. Esistiamo nella trascendenza, l'individuo è progetto e le cose del mondo, la cosalità, assumono la fisionomia di utensile per il predisporre umano.
Ma ecco sopraggiungere la morte, l'infausto θάνατος (thànatos), in simbiosi con la facoltà "di non poter-più-esserci": nel senso che il respiro estremo è l'ultima possibilità dell'esistenza e - insieme - l'atto di annientamento dell'esistenza stessa. Viviamo, insomma, "per vivere la morte", senso autentico del nostro spirito e anticipazione progressiva della fine fatale: il pensiero heideggeriano si configura nel donare senso all'essere di vari enti tramite l'esperienza del loro possibile nulla.
Un simile, articolato meccanismo, tuttavia, non concorda con l'esito di un atto intellettivo, piuttosto con il sentimento specifico dell'angoscia. Quale il motivo? Il complesso ansioso/angoscioso - ricordo, nella lingua tedesca, la confluenza di entrambi i concetti nella parola Angst - colloca l'uomo al cospetto del niente, del nulla di contenuto, vale a dire al non-senso di ogni programma per cui, stabilisce il filosofo, «la situazione affettiva che può tener aperta la costante e radicale minaccia intorno a se stesso, minaccia nascente dal più proprio ed isolato essere dell'esserci, è l'angoscia».
Paolo Russo, dopo averla definita «morte viva», scrive:
L'ansia è una via d'ingresso verso quel mondo descritto dai poeti, verso quello che gli psicanalisti chiamano inconscio. È un luogo terribile dove le sofferenze diventano pugnali sul cuore, cadute da altezze elevate, pelle crepata, per usare il lessico poetico, eppure è un luogo che non conosce la morte, è una morte da vivi. L'ansia è una sensazione di dolore estremo, dolore di rappresentazione [...]. Siamo mente che non conosce la morte perché l'angoscia dell'ansia è un'angoscia che travalica la morte. [pag. 9].
Heidegger, temendo di non aver ottenuto sufficiente chiarezza, precisa: «Con il termine angoscia non intendiamo quell'ansietà assai frequente che in fondo fa parte di quel senso di paura che insorge fin troppo facilmente. L'angoscia è fondamentalmente diversa dalla paura. Noi abbiamo paura sempre di questo o di quell'ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato. Nell'angoscia, noi diciamo, uno è spaesato. Ma dinanzi a che cosa v'è lo spaesamento e cosa vuol dire quell'uno? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell'insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell'ente nella sua totalità, che nell'angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell'ente, rimane soltanto e ci soprassale questo nessuno. L'angoscia rivela il niente. Che l'angoscia sveli il niente, l'uomo stesso lo attesta non appena l'angoscia se n'è andata. Nella luminosità dello sguardo sorretto dal ricordo ancora fresco, dobbiamo dire: ciò di cui e per cui ci angosciavamo non era "propriamente" - niente. In effetti il niente stesso, in quanto tale, era presente».
Da parte sua Paolo Russo, dopo aver descritto la «crisi ansiosa» nei termini di «un vuoto da riempire», precisa:
Vulnerabilità e ossessioni sono dei meccanismi naturali che si innescano in base agli eventi che viviamo. Nell'ansia il meccanismo di innesco salta: è come se si restasse ingabbiati in un'emozione che innesca il meccanismo senza che vi sia uno stimolo specifico. L'impatto con questo funzionamento è disarmante proprio perché si provano emozioni sgradevoli senza nessun motivo. [pag. 39]
Infine, citiamo i versi dell'autore intorno alla conclusione del volume, con l'intento di coglierne il coraggio propedeutico a recuperare «il filo conduttore degli eventi traumatici», affinché la cura, nella prassi di «relazione e realizzazione» e nell'«entrare a contatto con le cose», possa interrompere il corso malevolo dei processi mentali:
La mente è un tuono
dal rimbombo spaventoso
con echi di immagini
che trafiggono nude pareti
di fragilità.
Dopo la tempesta
non resta nulla
di un campo di fiori
baciati dal sole,
quando si è appesi
ad ancore di paura...
Quando si è sospesi
tra la terra che crepa
e un gabbiano che vola...
[pag. 57]
Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.